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Noa Pothoven: cattiva informazione e processi sommari per una vicenda che avrebbe meritato più rispetto.

Noa Pothoven: cattiva informazione e processi sommari per una vicenda che avrebbe meritato più rispetto.

Noa PothovenQualche giorno fa i giornali Italiani hanno dato notizia della decisione di Noa Pothoven, diciasettenne Olandese, di porre fine alla sua vita perché ritenuta non più degna di essere vissuta. La ragazza, infatti, era affetta da una grave forma di depressione, combinata a una severa anoressia e disturbo da stress post traumatico a seguito di multiple violenze sessuali subite durante l’infanzia. Una condizione intollerabile, che i venti ricoveri in tre diversi ospedali psichiatrici, in cui era stata anche sottoposta a nutrizione forzata tramite sondino naso-gastrico, non sono riusciti ad alleviare. Così Noa, che nel 2018 aveva anche chiesto l’aiuto di una clinica dell’Aja specializzata sul fine vita senza ottenerlo, perché considerata troppo giovane, ha deciso di smettere di mangiare e bere. A 17 anni ha fatto valere il proprio diritto di rifiutare ogni terapia, chiedendo solo che le venissero somministrate cure palliative per alleviare le sofferenze del suo corpo, già gravemente compromesso dall’anoressia, sino al momento della sua morte.

Perché la notizia ha fatto scalpore in Italia

La notizia della morte della giovane Noa è stata completamente stravolta dal tam tam mediatico internazionale. Anche i giornali italiani hanno inizialmente diffuso la notizia che si trattasse di Eutanasia, per poi correggersi in un secondo momento. L’idea che ad una ragazza di 17 anni fosse stata concessa l’eutanasia per porre fine a una vita caratterizzata da un’intollerabile sofferenza psicologica, ha scosso l’opinione pubblica e portato i più ad abbandonarsi a un’emotività incontrollata e inopportuna. I commenti sulla vicenda hanno spesso preso la forma di un vero processo contro Noa, in primis, per allargarsi alla sua famiglia, ai medici coinvolti e alla legge che nei Paesi Bassi regola l’accesso all’eutanasia. L’inaspettata eco mediatica suscitata dalla notizia ha costretto la famiglia di Noa a precisare le circostanze della sua morte, a giustificarne la scelta e infine, a chiedere silenzio e rispetto. A seguire una riflessione critica sulle obiezioni e sui commenti che si sono susseguiti dall’uscita della notizia.

L’angoscia adolescenziale non è un male terminale: il futuro è pieno di sorprese

Uno dei commenti più diffusi sulla condizione di Noa riguarda il fatto che non fosse affetta da alcuna malattia terminale e che, in virtù di questo, avrebbe potuto essere aiutata e curata. Sebbene la notizia che alla giovane sia stata concessa l’eutanasia sia stata smentita, la “prima versione dei fatti” ha portato l’opinione pubblica a interrogarsi sulla possibilità che le motivazioni alla base di una scelta eutanasica siano collegate a una condizione di grave e intollerabile sofferenza psicologica.  Se a livello concettuale l’eutanasia per pazienti oncologici o persone affette da gravi malattie degenerative allo stadio terminale viene sempre più considerata un’opzione legittima, nel caso della sofferenza psicologica l’accettazione è molto meno scontata. Si tende a sminuirne la gravità, se comparata alla sofferenza fisica, attribuendole una maggiore tollerabilità e una presunta reversibilità che renderebbe la richiesta di eutanasia inammissibile.

Nel caso di Noa, inoltre, l’ “aggravante” della giovane età ha portato alcuni a inquadrare la sofferenza della ragazza come un disagio adolescenziale, per definizione mutevole e dunque ancor meno “importante”.
Al di là di quanto sia inopportuno e ingiusto derubricare la sofferenza psicologica a sofferenza “di secondo grado” rispetto a quella fisica, colpisce la distinzione manichea tra le due condizioni, come se la sofferenza fisica e quella psicologica fossero due orizzonti completamente distinti l’uno dall’altro. Sostenere che la condizione di Noa fosse reversibile, perché connessa ad una sofferenza psicologica, significa ignorare la complessità di quelle malattie psichiatriche che portano a compromettere gravemente l’integrità del corpo e la sua stessa sopravvivenza, come nel caso dell’anoressia che affliggeva da anni la 17enne Olandese. Del resto non è un mistero il fatto che, proprio per le sue gravissime condizioni fisiche, la giovane sia stata sottoposta più volte, contro la sua volontà, a misure contenitive e alla nutrizione forzata, in un caso addirittura dopo averle indotto il coma farmacologico.

Giudicare le decisioni della ragazza come avventate e inconsapevoli “delle vita che l’attendeva”, contrapponendo al calvario a cui aveva deciso di porre fine l’immaginario di un futuro roseo e pieno di promesse, significa non solo sminuire le sue decisioni, la sua sofferenza e la gravità del suo stato di salute psico-fisica, ma anche delegittimarne le volontà sulla base di un mero criterio anagrafico.

A soli 17 anni non si può decidere di morire

 Sono numerosi gli articoli che delegittimano la decisione di Noa sulla base di un pregiudizio di natura anagrafica. L’adolescenza viene descritta come l’età in cui tutto è mutevole e l’espressione della volontà è labile perché basata su un’esperienza di vita troppo breve per essere veramente presa sul serio. Ma è davvero l’età a definire le capacità decisionali di una persona e a determinare il valore delle sue esperienze di vita? Davvero possiamo affermare che una persona che ha vissuto esperienze terribili sul suo corpo, e che ha cercato di combatterne per anni le conseguenze traumatiche, non avesse consapevolezza di sé, del proprio ideale di vita buona e di quanto la propria vita reale se ne discosti?

Definire indiscriminatamente tutti gli adolescenti come intrinsecamente incapaci di esprimere volontà consapevoli e razionali significa cedere ad un pregiudizio adultocentrico, che considera chiunque non abbia compiuto i 18 anni un “paziente morale” incapace di autodeterminarsi. Valutare le capacità e le competenze di un individuo esclusivamente sulla base di un criterio anagrafico significa negare ogni spazio all’individuale maturazione di competenze connessa alle esperienze personali. Il vissuto di Noa, le drammatiche vicende che l’hanno portata a convivere con disturbi sempre più intollerabili e ad essere sottoposta a terapie sempre più invasive, sono elementi che nel bene e nel male hanno segnato il suo processo di maturazione e non possono essere sminuiti e ignorati solo per la sua giovane età.

 Ma quale libera scelta, è la malattia a parlare

Uno delle obiezioni più controverse circa la reale consapevolezza della decisione di Noa è la considerazione che la pulsione di morte fosse intrinseca al disagio psicologico da cui la giovane era affetta. La scelta di Noa viene dipinta non più come una libera espressione della volontà ma come un sintomo stesso della malattia che avrebbe dovuto essere curata tentando il tutto e per tutto con ogni tipo di terapia praticabile. Non spetta a noi mettere in discussione le valutazioni cliniche effettuate dai medici che si sono confrontati con Noa nell’ultimo periodo della sua esistenza. Sicuramente, la peculiarità del malessere psicologico induce a riflettere sulla maggior cautela necessaria per accertare la reale consapevolezza del paziente, ma una volta fatte le verifiche del caso la malattia in sé non può essere motivo di delegittimazione dell’autonomia.
Del resto uno degli argomenti classici per mettere in discussione la consapevolezza delle scelte di un malato, anche nel caso di patologie “fisiche”, fa leva proprio sulla sua condizione di estrema sofferenza e fragilità che gli precluderebbe la possibilità di formulare decisioni razionali e lo renderebbe particolarmente esposto a manipolazione, pressioni e alla possibilità di compiere scelte non realmente libere. Secondo questa visione il bene del paziente non risiederebbe dunque in quello che lui crede di volere, ma in ciò che il medico ritiene sia il suo migliore interesse. L’accoglimento della volontà di morire, in questa prospettiva paternalista e vitalista, avviene solo nel caso in cui le persone preposte alla cura del soggetto valutino di aver tentato ogni possibile terapia e che non ci sia più alcuna alternativa praticabile. Non si prende in minima considerazione la possibilità che una scelta razionale e consapevole possa prevedere anche il rifiuto di terapie che, per quanto valide, non si ritengono più tollerabili.

Amare non significa mai lasciare andare la vita verso la morte

Nell’ultimo messaggio ai suoi follower Noa annuncia la decisione di interrompere nutrizione e idratazione, rifiutando le cure impostele negli anni precedenti ritenute invasive, umilianti e non più tollerabili. Chiude il messaggio chiedendo a tutti di rispettare la sua scelta perché “amare vuol dire lasciar andare”. Noa è morta nella sua casa, circondata dalle persone che le volevano bene, a partire dai suoi genitori che, dopo aver tentato disperatamente nel corso degli anni di curare la figlia chiedendo anche che venisse sottoposta ad elettroshock (terapia negata), hanno deciso di supportare le sue decisioni.
La scelta della famiglia di rispettare la volontà di Noa è stata da molti interpretata come un abbandono ingiustificabile ai danni di chi avrebbe avuto soltanto bisogno di aiuto. Anche questo genere di giudizi sottende una visione paternalistica che, combinata con il principio che la vita rappresenti sempre e comunque il bene supremo per ciascun individuo, porta a delegittimare qualsiasi volontà ne metta in discussione l’assolutezza, secondo quello schema ben noto ai detrattori del diritto all’autodeterminazione terapeutica di cui abbiamo già parlato. La famiglia di Noa avrebbe dunque dovuto costringere Noa a vivere, a continuare a godere del sommo bene di quella vita che era incapace di apprezzare.  Come se il bene di una persona fosse altra cosa rispetto al suo ideale di vita buona, ai suoi principi, alle sue prospettive future e alle sue volontà. Come se l’amore ci autorizzasse a decidere in cosa consista il bene di chi amiamo, senza alcuna considerazione dei suoi stessi pensieri.

Si è parlato tanto di Noa, della sua malattia, di cosa si sarebbe potuto e dovuto fare per sottrarla al suo triste destino. Non tutti però si sono soffermati a riflettere su quanto possa essere più infelice un destino imposto dagli altri che non un destino che, seppure nelle circostanze avverse, si è consapevolmente scelto.

 

 

Per approfondimenti: https://www.accesamente.it/2016/09/fine-vita-e-infanzia-riflessioni-oltre-lideologia.html

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