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Il 20 Aprile 2017 si è conclusa alla Camera la discussione del testo unificato riguardante le norme in materia di Consenso Informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento (le cosiddette DAT, meglio note all’opinione pubblica col termine di BIOTESTAMENTO). Il testo, con le modifiche apportate dagli emendamenti accolti, è stato approvato con 327 voti favorevoli e […]
Il 20 Aprile 2017 si è conclusa alla Camera la discussione del testo unificato riguardante le norme in materia di Consenso Informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento (le cosiddette DAT, meglio note all’opinione pubblica col termine di BIOTESTAMENTO). Il testo, con le modifiche apportate dagli emendamenti accolti, è stato approvato con 327 voti favorevoli e […]
Biotestamento: la Camera dice sì al Testo che NON cambierà le cose
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Il 20 Aprile 2017 si è conclusa alla Camera la discussione del testo unificato riguardante le norme in materia di Consenso Informato e di Disposizioni Anticipate di Trattamento (le cosiddette DAT, meglio note all’opinione pubblica col termine di BIOTESTAMENTO). Il testo, con le modifiche apportate dagli emendamenti accolti, è stato approvato con 327 voti favorevoli e 37 contrari.
Il testo originario in discussione, pur essendo perfettibile, rappresentava un accettabile punto di partenza per poter finalmente parlare di autodeterminazione terapeutica e affermare la centralità del paziente, delle sue volontà e delle sue preferenze morali su questioni che lo riguardano in prima persona e in maniera esclusiva. Era abbastanza prevedibile che la battaglia più importante, e al contempo più insidiosa, sarebbe stata giocata nella fase della discussione alla Camera attraverso l’accoglimento o meno dei vari emendamenti proposti, capaci di modificare in maniera sostanziale il testo e la sua efficacia.
Sebbene si riscontri da più parti un diffuso entusiasmo per il progresso dell’iter legislativo, bisogna interrogarsi su quanto il passaggio della discussione dalla Camera al Senato rappresenti un progresso sostanziale oltre che “procedurale”.
Il testo, così come licenziato dalla Camera, rappresenta davvero un passo avanti “storico” per il nostro Paese?
In realtà, a leggere alcuni degli emendamenti approvati e ad ascoltare le discussioni che li hanno accompagnati, si ha l’impressione (tutt’altro che infondata) che la “battaglia degli emendamenti” sia andata completamente a favore dei detrattori della legge stessa. Questa, infatti, appare svuotata dall’interno del suo intento prioritario.
Cominciamo col dire che una legge in materia di consenso informato e biotestamento dovrebbe avere la finalità di tutelare e valorizzare le volontà dei cittadini in ambito biomedico in qualsiasi condizione clinica si trovino. Se l’istituto del consenso informato, infatti, consente all’individuo cosciente di decidere autonomamente sul proprio corpo e sulla propria salute, qui ed ora, il testamento biologico è la sua estensione temporale e consente di esercitare il proprio consenso/dissenso informato anche quando particolari condizioni cliniche riducano, del tutto o in parte, la capacità di prendere decisioni informate e consapevoli sul proprio corpo. Consente, infatti, a ciascun cittadino, di registrare le proprie volontà e preferenze ora per allora, lasciando precise direttive su come affrontare specifiche evenienze cliniche nel caso in cui non gli sarà più possibile esprimere volontà e preferenze attuali.
L’istituto del Consenso informato e il Biotestamento rappresentano, quindi, la massima espressione dell’autonomia del paziente nella relazione terapeutica e un netto e definitivo abbandono del paternalismo medico. Purtroppo alcuni articoli della legge non rispecchiano un’evoluzione culturale in questo senso. Del resto anche l’utilizzo dell’espressione “disposizioni anticipate di trattamento” in luogo della formula ben più decisa e vincolante di “direttive anticipate di trattamento” non lasciava presagire nulla di buono.
Il comma 6 dell’art. 1, così come approvato dalla Camera, recita:
” Il medico è tenuto a rispettare la volontà espressa dal paziente di rifiutare il trattamento sanitario o di rinunciare al medesimo e, in conseguenza di ciò, è esente da responsabilità civile o penale. Il paziente non può esigere trattamenti sanitari contrari a norme di legge, alla deontologia professionale o alle buone pratiche clinico-assistenziali; a fronte di tali richieste, il medico non ha obblighi professionali”.
Sebbene l’articolo esordisca sostenendo che il medico è tenuto a rispettare la volontà del paziente, nella sua parte finale lo si svincola da questo dovere nel caso in cui le richieste in oggetto siano contrarie, tra le altre cose, al codice deontologico.
L’articolo 22 del codice dentologico recita:
“il medico può rifiutare la propria opera professionale quando vengano richieste prestazioni in contrasto con la propria coscienza o con i propri convincimenti tecnico-scientifici”.
E’ evidente che subordinare l’accoglimento delle volontà delle DAT al rispetto del codice deontologico implica la possibilità per il medico di tirarsi indietro qualora le richieste non siano conformi alla sua visione morale, alla sua coscienza e, in definitiva, alla sua volontà. Come a dire che potrà legittimamente praticare l’obiezione di coscienza a sua discrezione. Un articolo che avrebbe dovuto tutelare l’autonomia decisionale del singolo nelle questioni che lo riguardano, finisce per ribadire e riproporre l’asimmetrica relazione terapeutica tipica del paternalismo medico, anteponendo la volontà del medico a quella del paziente.
Decidere di inserire il riferimento al rispetto del codice deontologico medico come discriminante per la vincolatività o meno delle disposizioni anticipate è discutibile sotto più punti di vista. In primo luogo, fare riferimento a un codice professionale, utilizzandolo come fonte del diritto in una norma di rango superiore, è un’operazione quanto meno singolare poiché inverte la gerarchia tra le leggi dello Stato -che dovrebbero valere per tutti, e dunque anche per i medici- e le norme interne a una categoria professionale, che, come tali, dovrebbero adattarsi alle leggi vigenti e non viceversa. In secondo luogo, legittimare l’obiezione di coscienza dei medici ha come risultato quello di invalidare l’impianto stesso della legge e la sua utilità. Come già accaduto per la legge 194, infatti, si inserisce all’interno della legge stessa la possibilità –dunque legale- di trasgredirla e disattenderla sulla base di valutazioni personali. A esser tutelata è dunque la volontà e la libertà decisionale del medico ANCHE a scapito di quelle del paziente. Ne è ben consapevole Raffaele Calabrò che esulta per l’introduzione delle modifiche che hanno portato al testo definitivo del comma 7 affermando “ Abbiamo piantato un picchetto a sostegno dell’autonomia del medico. Con Il via libera dell’Aula all’emendamento fortemente voluto da Alternativa popolare che non obbliga il medico ad attenersi a trattamenti di ogni genere ne abbiamo salvaguardato la professionalità. ” L’ulteriore specificazione della relatrice Lenzi in merito a come verrà praticata questa obiezione peggiora, se possibile, la situazione. Nello spiegare come questa evenienza differisca in maniera sostanziale dall’obiezione di coscienza alla 194, di cui riconosce le criticità, specifica che non ci saranno obiezioni a priori ma che il medico deciderà caso per caso. Non è dato sapere in che modo rimarcare la totale arbitrarietà delle scelte del medico e ribadire il riconoscimento a quest’ultimo di quella libertà decisionale che viene, di fatto, contemporaneamente negata al paziente, dovrebbe rassicurare quanti giustamente intravedono nell’esercizio dell’obiezione di coscienza la negazione di quanto la legge avrebbe dovuto normare e tutelare.
Lo svilimento delle disposizioni anticipate, la compressione dell’autonomia ad esse sottesa in favore di quella del medico, appare essere il leit motiv degli emendamenti più controversi, accolti da parlamentari troppo preoccupati di preservare l’autonomia professionale e morale del personale sanitario per ricordarsi che la legge avrebbe dovuto preservare ben altro: la libertà di scelta di quanti subiscono sul proprio corpo, e nella propria esistenza, le decisioni in questione. Solo il diretto interessato, in virtù della propria concezione di vita buona, di salute e di dignità, può rivendicare la titolarità delle scelte mediche che lo riguardano. A questo proposito sconcerta l’approvazione di un altro emendamento che modifica il comma 5 dell’art. 4 in questo modo:
“Fermo restando quanto previsto dal comma 6 dell’articolo 1, il medico è tenuto al rispetto delle DAT le quali possono essere disattese, in tutto o in parte, dal medico stesso, in accordo con il fiduciario, qualora esse appaiano palesemente incongrue o non corrispondenti alla condizione clinica attuale del paziente ovvero sussistano terapie non prevedibili all’atto della sottoscrizione, capaci di offrire concrete possibilità di miglioramento delle condizioni di vita. Nel caso di conflitto tra il fiduciario e il medico, si procede ai sensi del comma 5 dell’articolo 3. (n.d.r l’articolo prevede che in caso di conflitto la decisione sia rimessa al giudice tutelare)”
Come brillantemente sottolineato dalla Dott.ssa Bernacchi, coordinatrice della sez. Pisana della Consulta di Bioetica, in un intervento stampa “non è chiaro – visto che le DAT varranno come volontà di una persona non più capace di esprimerle perché incosciente o invalidata– chi e in base a quali criteri, stabilirà il “miglioramento delle condizioni di vita”, concetto che non si riferisce alle condizioni cliniche, ma, appunto, a quelle dell’esistenza, rispetto alle quali l’unico titolare a valutarne la dignità è il soggetto interessato. Il dibattito parlamentare e la scia mediatica di entusiasmo che lo va seguendo, sembrano dimenticare che il valore delle volontà terapeutiche di un individuo, si fonda sull’idea di vita buona che ciascun individuo persegue per sé stesso. Le disposizioni anticipate di trattamento non sono cioè una valutazione sulla bontà clinica delle terapie, ma una valutazione circa la corrispondenza o meno di quell’efficacia clinica rispetto alla qualità della vita che ogni persona ritiene essere per sé accettabile.”
Il paternalismo medico che con questa legge avrebbe dovuto essere definitivamente messo al bando dalla relazione terapeutica, verrebbe riabilitato, seppure in maniera mascherata, e legittimato in forza del diritto positivo. Il paziente, i suoi diritti, la sua autonomia morale, vengono ancora una volta accantonati in virtù dell’attenzione prioritaria che viene conferita alla classe medica. E’ sufficiente ascoltare qualche intervento della discussione alla Camera per accorgersi di come l’asimmetria del rapporto terapeutico improntato al paradigma paternalistico, non sia affatto superato nell’immaginario di quanti manifestano l’urgenza di tutelare sempre e solo la classe medica a scapito dei diritti di tutti gli altri cittadini.
Questa visione anacronistica della medicina, assieme al vitalismo cui spesso è connaturata (particolarmente eloquente a questo proposito, nella discussione alla Camera del 19/04, l’intervento del leghista Fedriga che definisce i medici come “angeli della vita”), hanno già decretato il fallimento di un testo di legge che, prima ancora di terminare il suo iter, si rivela inadeguato e inefficace e rischia di far diventare carta straccia quelle disposizioni anticipate di cui avrebbe dovuto garantire la validità. Affermare infatti che queste ultime sono accoglibili e vincolanti solo ed esclusivamente se il medico è d’accordo equivale a dire che non lo sono affatto e che l’ultima parola spetta, comunque, al medico. Come ora, insomma.
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