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Tutela degli interessi di un minore in ambito medico-sanitario

Tutela degli interessi di un minore in ambito medico-sanitario

I genitori sono sempre più competenti dei loro figli minori? Sino a che punto possiamo considerare degli individui in crescita completamente incapaci di prendere decisioni importanti sulla propria vita?

Questi sono solo alcuni degli interrogativi che sorgono, o meglio che dovrebbero sorgere, nel momento in cui il soggetto coinvolto nelle decisioni mediche è un paziente minore. Il condizionale in questi casi diventa quasi d’obbligo perché la maggior parte delle persone considera questi interrogativi puramente retorici e di facile e scontata soluzione. Siamo abituati a concedere ai genitori, e agli adulti in generale, un’autorità indiscussa nei confronti dei minori. Tale autorità, identificata nella potestà genitoriale, consente ai genitori, nell’interesse del figlio, di decidere in sua vece anche su questioni riguardanti il suo stesso corpo, perché considerato ancora immaturo per provvedervi da sé.

La considerazione paternalistica implicita in questo assunto viene spesso accettata senza essere messa in discussione, come un fatto di natura. Il minore sarebbe, cioè, per sua stessa natura, intrinsecamente incapace e dunque bisognoso di tutela da parte dei genitori. Se ci fermassimo a riflettere sul fatto che è proprio in virtù di questo principio che spesso i minori vengono sottoposti a pratiche che possono risultare lesive della loro integrità (e purtroppo basta leggere qualche tragico caso di cronaca per averne esempi quotidiani), ci accorgeremmo di quanto possa essere discutibile darne per scontata la validità assoluta anche (ma non solo) in ambito biomedico. Più che in altri contesti, infatti, la natura delle decisioni che vengono prese in questo ambito, per le conseguenze che esse comportano sia sul piano biografico che su quello fisico, consente di far emergere con particolare evidenza il grande carico di responsabilità morale connesso all’esercizio della potestà genitoriale. Pensiamo anche solo alla possibilità di curare i propri figli con terapie più o meno “alternative”, alla possibilità di vaccinarli o meno, a quella di acconsentire alla sperimentazione farmacologica, per non parlare delle spinose scelte di fine vita nei tragici casi di pazienti oncologici. Ciascuna decisione medica inciderà in maniera più o meno irreversibile sul corpo, e sulla vita, di questi individui in crescita. Tutte le scelte che i genitori compiono per conto dei figli, infatti, hanno come conseguenza di condizionarne (quando non pregiudicarne indebitamente) la qualità della vita presente e futura.

La riflessione bioetica attuale sembra trascurare del tutto o quasi i problemi legati alla legittimità (e agli eventuali limiti) delle scelte genitoriali sostitutive, assumendo, in maniera spesso irriflessa, quella generica concezione del comune sentire che descrive il minore come un “non vedente morale” la cui incapacità e mancanza di competenza rappresentano peculiarità intrinseche e imprescindibili della sua stessa condizione. L’attenzione della bioetica tradizionale è focalizzata sul mondo degli adulti, siano essi pazienti o genitori di pazienti, e difficilmente affronta la questione dei minori in un’ottica diversa da quella già enunciata. La conseguenza più immediata di questo approccio “adultocentrico” è la quasi totale disattenzione al punto di vista del minore. Coloro che dovrebbero essere i “protagonisti” delle questioni che, di fatto, riguardano la loro salute, il loro corpo e, in definitiva, la loro stessa vita, vengono relegati ad una posizione subalterna agli adulti coinvolti, siano essi i genitori o i medici, figurando solo come corpi “inerti” il cui unico ruolo è quello di subire le conseguenze delle decisioni altrui.

Se il paziente adulto negli ultimi decenni è stato protagonista di un graduale processo di emancipazione da quella condizione che lo relegava ad un ruolo completamente passivo rispetto al medico, nulla è cambiato per i pazienti minori. Questi vengono considerati incapaci di autodeterminarsi in quanto tali, in forza, dunque, di un criterio meramente anagrafico. Un criterio incapace di rendere conto del fatto che nella definizione di “minore” (termine per altro già valutativo e riduttivo) vengono accomunate una molteplicità di persone dalle capacità cognitive e morali differenti e irriducibili le une alle altre. Un criterio che, a ben vedere, è poco più che un pregiudizio che ha la pretesa di risolvere il problema delle capacità del minore di autodeterminarsi negando a priori questa possibilità e trascurando la progressiva maturazione delle competenze di un individuo sulla base dei vissuti personali. Tutti ugualmente incapaci dagli 0 ai 18 anni. Tutti pienamente capaci dai 18 anni in poi. Siamo davvero sicuri che un limite di età, fissato arbitrariamente a seconda della legislazione vigente, possa legittimare l’esclusione a priori dal processo decisionale di chi accoglie nel proprio corpo le conseguenze di quelle decisioni?

Pubblicato originariamente in Surgical Tribune Italia  il 14/07/2014

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