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La Gestazione Per Altri e la tutela delle donne

La Gestazione Per Altri e la tutela delle donne

Qualche giorno fa il Consiglio d’Europa ha bocciato il rapporto sulla gestazione per altri con 83 “no”, 77 “sì” e 7 astenuti. Il rifiuto del documento, che conteneva alcune timide aperture alla regolamentazione della pratica, fa eco alla severa bocciatura da parte del Parlamento Europeo che, nel Dicembre 2015, l’ha definita come una pratica lesiva della dignità della donna (QUI la risoluzione integrale).

La compattezza del voto di 18 parlamentari italiani è stata determinante (solo tre si sono dissociati) ed è stata salutata come un momento di grande collaborazione politica per far fronte ad una pratica additata come intrinsecamente immorale e inaccettabile.

“Spero che questa decisione aiuti la presa di coscienza della assoluta negatività di questa pratica lesiva della dignità della madre e anche del figlio, e apra la strada alla dichiarazione dell’utero in affitto come reato universale” (Maurizio Lupi, Presidente dei deputati di area popolare)

“Dopo un dibattito nel quale ci sono state molte divisioni, alla fine ha prevalso il rispetto dei diritti umani, delle donne e dei bambini. Insomma, la maternità surrogata è stata condannata” (Elena Centemero (Forza Italia), presidente della commissione di eguaglianza e non discriminazione del Consiglio d’Europa)

Poche le voci di dissenso rispetto ad un coro nutrito di esultanze, tra queste quella di Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni: “Chi esulta di questo voto non si rende conto che questa decisione va a vantaggio dei fenomeni di sfruttamento”

La gestazione per altri, in poche parole, non s’ha da fare.

Il dibattito su questa pratica e sulle sue implicazioni etiche è spesso dominato da esternazioni emotive non adeguatamente corredate da argomentazioni logiche e una confusione di piani concettuali che complicano ulteriormente una matassa già fin troppo intricata.

La Gestazione per Altri (d’ora in poi GPA), termine più neutro e non valutativo della pratica conosciuta ai più come “utero in affitto” o “maternità surrogata”, consente chi ne fa ricorso di diventare genitori grazie all’aiuto di una donna che porta avanti la gravidanza per proprio conto. Nei paesi in cui è regolamentata, precise norme ne determinano i criteri di ammissibilità e di praticabilità: mentre in alcuni paesi è legale solamente la pratica altruistica, in altri è prevista anche la possibilità di essere retribuite.

Una delle principali argomentazioni addotte per condannare la pratica è il rischio che diventi uno strumento di sfruttamento delle donne in condizioni di vulnerabilità e povertà, portandole, per bisogno, a trattare il proprio corpo come merce. Questo rischio, che pur esiste e deve essere affrontato con serietà in modo da tutelare le donne da eventuali abusi, non giustifica una delegittimazione tout court della pratica.

Queste obiezioni appartengono, infatti, alla categoria delle obiezioni di merito, che contribuiscono cioè a metterci in guardia solo ed esclusivamente su possibili e distorti utilizzi della pratica. Simili considerazioni di ordine prudenziale non possono essere estese alla pratica in sé e non possono dunque legittimarne una negazione a priori. Con un indebito salto logico, le questioni di merito vengono elevate a obiezioni di principio e portano a condannare la GPA come una pratica che sempre e comunque comporta uno sfruttamento del corpo delle donne contro la loro reale volontà.

Una simile visione è parziale e distorta e, questa sì, fortemente lesiva della dignità delle tante donne che volontariamente e consapevolmente accettano di portare nel proprio grembo un figlio altrui (si ricordi che in molti casi la gestante non è neppure la madre biologica del bambino) e vengono, invece, descritte come idiote morali, inconsapevoli dei loro atti e bisognose sempre e comunque di tutela.

Concentrarsi sul solo pericolo di un uso distorto della pratica, negando a priori la possibilità che la GPA possa essere condotta nel rispetto della volontà della diretta interessata, equivale a sancire un’indisponibilità dell’utero alla donna che lo possiede in nome di una tutela paternalistica della sua stessa dignità.

Una visione così parziale del fenomeno, che porta a porre l’accento solo sulle deprecabili conseguenze di un eventuale abuso, porta a sovrastare il diritto delle donne all’autodeterminazione e a delegittimarne le scelte anche quando sono volontarie, consapevoli e ben ponderate.

Pensiamo ad esempio ai casi di GPA altruistica, in cui madri e sorelle decidono di portare in grembo il proprio nipote in un sommo dono d’amore per la propria figlia/sorella (trovate qui una di queste storie), perché la tecnica che glielo permette dovrebbe essere considerata intrinsecamente lesiva della loro dignità? È forse l’utero a godere di uno status particolare che lo renderebbe indisponibile sempre e comunque ad una donazione?

Qual è la differenza morale tra questa donazione e quella di altri organi, come il fegato o un rene?

Perché l’atto di donare una parte del proprio fegato, o un rene a un figlio malato , difficilmente diventa oggetto di condanne morali ed è, anzi, considerato degno di plauso poiché simbolo di un amore incondizionato?

La diversa considerazione morale di questi gesti lascerebbe pensare che l’apparato riproduttivo sia ammantato di una sorta di sacralità che, a differenza degli altri organi, lo renderebbe indisponibile.

Considerando poi che la GPA è una “donazione” temporanea che, a differenza della donazione di un rene, non priva il soggetto dell’organo e della funzionalità a cui è preposto, l’asimmetria delle valutazioni morali è ancora più evidente. Questa idea lascia supporre l’esistenza di una sorta di primato morale degli organi preposti alla riproduzione, e tale idea non può che ricondurre a una percezione fortemente stereotipata della femminilità che vede nell’esperienza della maternità un momento irrinunciabile, fondamentale e fondante dell’identità femminile stessa.

Ma la GPA può essere davvero definita maternità surrogata?

La sovrapposizione tra l’atto della gestazione e la maternità è indebita e piuttosto azzardata, e non tiene conto in alcun modo della distinzione tra l’atto fisiologico della gestazione, la genitorialità biologica e genitorialità sociale.

Può la maternità essere ridotta alla sola gestazione? Può definirsi madre -di un bambino che ha portato in grembo e di cui non è spesso neppure la madre biologica- una donna che tale non si riconosce? Ha senso scomodare il termine maternità? La pretesa di imporre a queste donne un ruolo non voluto e non ricercato non è forse una lesione della loro dignità e delle loro volontà?

Quanto poi alla critica che un simile gesto, altruistico o non, renderebbe una donna comunque un oggetto asservito al desiderio di genitorialità altrui… quante donne, pur non “prestando” il loro utero, diventano fondamentali per consentire alle persone di avere dei figli, prestando la loro opera senza che questo gesto sia considerato lesivo della loro dignità? Quante balie e quante babysitter surrogano il ruolo di cura delle madri e dei padri impossibilitati a farlo (ciò in cui di fatto consiste la maternità e paternità socialmente intesa) senza che nessuno abbia da ridire alcunché in merito?

La confusione tra obiezioni di merito e di principio, la frettolosa condanna senza appello dell’intera pratica e il rifiuto alla sua regolamentazione, in alcun modo può essere salutato come una vittoria nella tutela dei diritti delle donne:

  • non rappresenta una tutela di quelle donne che, in assenza di regolamentazione chiara e precisa che prevenga le possibilità di sfruttamento e abusi, potrebbero continuare a decidere di sottoporsi alla pratica per necessità, più che per una scelta libera e volontaria;
  • non tutela i diritti di quelle donne che, pur consapevoli, non sono libere di autodeterminarsi in un gesto di donazione volontaria (e temporanea) del proprio corpo.

In cosa consiste, dunque, il grande successo della votazione del Consiglio d’Europa?

 

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