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Fine vita e infanzia, riflessioni oltre l’ideologia

Fine vita e infanzia, riflessioni oltre l’ideologia

Eutanasia Pediatrica in Belgio. Le cattive ragioni del dissenso.

È di qualche giorno fa la notizia che in Belgio un ragazzo di 17 anni ha per la prima volta usufruito della legge approvata il 13/02/2014 che eliminava il limite di età per l’accesso all’eutanasia in situazioni di fine vita. Questa notizia ha sollevato numerose polemiche, dibattiti e reazioni spesso emotive e scomposte. La stampa Italiana è stata dominata per lo più da commenti dai toni preoccupati e scandalizzati e, spesso, addirittura apocalittici, improntati a una retorica sterile che procede più per posizioni di principio che non per argomentazioni che siano razionalmente giustificate (e giustificabili).

Prima di analizzare alcune delle più feroci critiche rivolte alla notizia, è opportuno fare chiarezza e ricordare che la legge belga prevede che un minore possa richiedere l’eutanasia solo in presenza di condizioni ben precise e subordina l’accoglimento della richiesta alla compresenza di numerose variabili:

  1. La richiesta deve essere espressione della volontà del paziente;
  2. Il minore si deve trovare in una condizione terminale;
  3. La richiesta deve essere giustificata dalla presenza di dolori insopportabili e non altrimenti risolvibili;
  4. I genitori del richiedente devono esprimere il loro consenso in merito alla volontà del figlio;
  5. La richiesta può essere accolta solo a seguito di un’accurata verifica della competenza/consapevolezza del minore da parte di una commissione di esperti.

Molte delle considerazioni che sono state formulate a commento di questa vicenda mostrano una totale ignoranza della legge che l’ha disciplinata e/o tralasciano, più o meno deliberatamente, alcune delle precondizioni che l’hanno resa ammissibile. Proveremo a farne una breve panoramica, senza la pretesa di essere esaustivi, a partire da alcuni commenti particolarmente evocativi.

“Ma quale buona morte. Così facevano i nazisti”.

È un evergreen delle obiezioni di principio all’eutanasia. Parte da un’indebita connessione tra l’eutanasia, intesa come scelta volontaria e consapevole di porre fine alla propria esistenza, e le epurazioni naziste. Attraverso l’applicazione del cosiddetto “pendio scivoloso” si paventano poi scenari apocalittici per cui la legalizzazione dell’eutanasia viene vista come l’inizio di un progressivo, ed inesorabile, scivolamento verso l’eliminazione dei soggetti ritenuti deboli e malati. Questa argomentazione ignora la volontarietà della scelta eutanasica che non può che rendere indebito qualsiasi accostamento a pratiche in cui il soggetto subisce un’azione voluta da altri per finalità completamente estranee al proprio interesse.

“Non c’è dubbio che il dolore di un figlio possa rappresentare per un genitore un vero e proprio martirio, ma proprio per questo in Italia la legge sulle cure palliative prevede una rete di centri impegnati nella lotta contro il dolore infantile”.

È un’altra delle argomentazioni classiche contro l’eutanasia. Consiste nell’affermare che l’atto eutanasico, più che essere espressione di una libera volontà, sia frutto di una scelta determinata da un “abbandono” del paziente e della sua famiglia da parte del personale medico e della società tutta. Lo smarrimento nel trovarsi ad affrontare da soli un evento così tragico e complesso porterebbe a chiedere l’eutanasia “per disperazione”. L’implementazione delle cure palliative viene dunque invocata a gran voce come “soluzione” al problema dell’eutanasia. Lo sviluppo del palliativismo e la diffusione e il rafforzamento della terapia del dolore, sono importantissimi per il miglioramento delle condizioni di vita di pazienti che combattono con patologie ad esito infausto, ma dal loro potenziamento non ne consegue logicamente una delegittimazione dell’opzione eutanasica. L’idea per cui un adeguato sviluppo delle cure palliative porterebbe alla totale scomparsa delle richieste di accesso all’eutanasia è indimostrabile e, soprattutto, non tiene conto del fatto che i criteri individuali che contribuiscono alla valutazione di una vita buona e degna di essere vissuta sono così vari e complessi da non poter avere la certezza che un’opzione praticabile per molti sia adeguata per chiunque. Presentare questi due differenti approcci al fine vita come antagonisti ed escludenti, ridurre le scelte a disposizione del paziente, piuttosto che ampliarle, non può che portare a un impoverimento delle possibilità a disposizione di ciascun individuo di rispettare e raggiungere il proprio ideale di vita (e di morte) buona.

«L’eutanasia sui minori è maschera di un atto di volontà libero. La soppressione di una vita fragile non è mai accettabile»

In considerazioni di questo genere si sommano due diverse prospettive: la prima è quella che associa la condizione della malattia ad una condizione di particolare fragilità incompatibile con la possibilità di una scelta volontaria e consapevole, la seconda è invece specificamente riferita al paziente minore negandone a priori la capacità di autodeterminarsi. La prima prospettiva mira alla delegittimazione dell’eutanasia come scelta libera e volontaria denunciando la condizione di estrema fragilità del paziente terminale, le cui sofferenze (fisiche e psicologiche) porterebbero a una condizione di minorità tale da non consentire di formulare una volontà razionale e consapevole. Il paziente, anzi, sarebbe spesso vittima di manipolazione e pressioni e portato a compiere scelte non realmente libere. Questa è stata per secoli la principale giustificazione del cosiddetto paternalismo medico, che riconosceva al personale sanitario la titolarità delle scelte mediche da effettuare nel miglior interesse del paziente, considerato incapace di provvedervi autonomamente. L’abbandono del modello paternalistico, avvenuto in concomitanza con il riconoscimento dell’imprescindibile centralità dell’individuo nello stabilire quale sia il suo miglior interesse, ha portato a riconoscere al paziente adulto la piena titolarità delle scelte mediche che lo riguardano, riconoscendone il diritto all’autodeterminazione anche in situazioni di malattia. Questo processo di emancipazione ha riguardato, però, solo ed esclusivamente il paziente adulto. Al paziente pediatrico, oltre allo stato di minorità legato alla malattia, viene attribuito uno stato di minorità “anagrafica” che presenta l’incapacità di autodeterminarsi come condizione intrinseca al minore stesso. Giungiamo così alla seconda prospettiva, che considera il minore incompetente, inconsapevole e incapace di esprimere preferenze qualificate, tantomeno su questioni così determinanti come la fine della propria esistenza. L’aspetto più problematico di una simile posizione è che viene presentata come una verità apodittica e indiscutibile. Lo status del minore sarebbe così autoevidente da non richiedere ulteriori giustificazioni al di là della tautologica affermazione “Il minore è incapace perché è minore”. È descritto, dunque, come un “paziente” morale, più che come un agente, e appare sempre e comunque bisognoso di tutela in virtù della propria minore età. E’ evidente che l’adozione di una simile prospettiva implica l’esclusione a priori della possibilità da parte del minore di autodeterminarsi e attribuisce qualunque sua scelta ad una deliberazione altrui.

L’aspetto che accomuna tutte le critiche alla vicenda belga è quello di riuscire a far scomparire il minore anche in una vicenda così drammatica di cui si trova ad essere l’innegabile protagonista. Si criticano i genitori, si critica la legge, si grida allo scandalo, si parla di tutto fuorché del punto di vista del minore che diventa quasi un personaggio marginale nella vicenda. È ridotto a mero corpo su cui si esercitano volontà di altri e su cui si combattono battaglie ideologiche. Si tralascia o si delegittima la sua manifestazione di volontà (condizione necessaria, peraltro, per l’applicazione della legge belga) e si adotta una prospettiva completamente adultocentrica che critica e commenta il solo punto di vista dei genitori, considerati gli unici reali agenti coinvolti nella scelta eutanasica poiché gli unici ad essere capaci, e perciò responsabili delle loro azioni, in virtù della loro età. Assumere un criterio esclusivamente anagrafico per valutare la competenza di un paziente pediatrico significa innanzitutto appiattire in questa definizione di “incompetenza senza appello” una classe di individui profondamente diversi tra loro per esperienza e capacità, non concedendo alcuna gradualità alla maturazione delle competenze e limitandosi ad affermare che un minore da 1 a 18 anni non è in possesso di quelle facoltà che acquisirà (magicamente?) solo dopo aver varcato la soglia del diciannovesimo anno di età. Ad essere completamente ignorato e sottovalutato è, inoltre, il valore formativo dell’esperienza nella maturazione delle competenze, a maggior ragione in situazioni di fine vita in cui l’esperienza è così pervasiva e dominante che, più che portare a considerazioni pietistiche sulla condizione del paziente, dovrebbe portare ciascuno di noi a rispettarne il dolore sofferto e la volontà che eventualmente potrebbe derivarne.

Si dice che la legge belga abbia aperto il campo all’abominio, perché tratta i minori malati come pesi di cui liberarsi, traditi proprio da chi dovrebbe tutelare e rispettare la loro debolezza. Ma in che modo presentare i pazienti in età pediatrica come idioti morali, privarli della dignità di essere soggetti, ridurli a mero corpo alla mercé dei genitori annullandone a priori qualsiasi capacità di autodeterminazione contribuisce a rispettarne la dignità e la sofferenza?

Originariamente pubblicato in Caratteri Liberi il 25/09/2016

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